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MISSIONE TRA INTERCULTURALITÀ, PRESENZA ED ITINERANZA: DEBOLI COME LA PAROLA!

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Messaggio  Admin Mer Ago 22, 2012 1:55 am

FONTE: MISSIONARI DELLA CONSOLATA

MISSIONE TRA INTERCULTURALITÀ, PRESENZA ED ITINERANZA: DEBOLI COME LA PAROLA!
Scritto da P. Stefano Camerlengo, IMC
Lunedì 20 Agosto 2012 09:32
P. Stefano Camerlengo, IMC

“L'inquietudine attivistica del gruppo dei discepoli, che non vuol riconoscere limiti alla propria operatività, e lo zelo che non tiene conto della resistenza, scambiano la parola del vangelo con un'idea capace di imporsi. L'idea esige dei fanatici, che non conoscono e non badano ad alcuna resistenza. L'idea è forte. La parola di Dio invece è così debole da lasciarsi disprezzare e respingere dagli uomini. Per la parola ci sono cuori induriti e porte chiuse; la parola prende atto della resistenza che incontra, e la patisce. È duro a riconoscersi: per l'idea non c'è niente di impossibile, per il vangelo ci sono invece cose impossibili. La parola è più debole dell'idea. Per cui anche i testimoni della parola nel portare questa parola sono più deboli dei propagandisti di un'idea. Ma in questa debolezza sono liberi dall'inquietudine morbosa dei fanatici, essi patiscono appunto assieme alla parola. È un grande compito di cui viene fatto carico ai discepoli, quello di riconoscere i limiti del loro incarico..... Ma l'abuso della parola si ritorcerà contro di loro.”(D. Bonhoeffer Sequela).

Carissimi, sono in visita ad alcune delle nostre missioni più significative e rappresentative dell'Africa ed il pensiero mi corre alla “nuova missione” a quanto da tempo stiamo parlando tra noi e che facciamo, comunque, fatica a vedere realizzato. Mi domando se la ricerca di questa nuova missione è solo uno stimolo in più per andare avanti, oppure serve a parlare di nuovo per indicare quello che già oramai è vecchio, oppure sia veramente una realtà che, magari a fatica, sta crescendo e inizia seppur timidamente a mostrare i suoi frutti. Ecco, tento qui di seguito a “buttare giù” delle note sparse sulle nuove linee della missione oggi, senza pretese, ma con la voglia di aprire dibattito, di creare riflessione, di non fermarsi a guardare.



1. Uno sguardo alla realtà!

L’illusione di un mondo che non c’è più!

Ci rendiamo conto che la nostra situazione sociale, culturale, personale sta cambiando

irrimediabilmente. I termini di tale mutamento sono:

a) una società segnata da una crescente presenza di persone e gruppi con culture differenti (multiculturalismo).

Ciò crea disagio, incertezza, ma anche nuovi livelli di consapevolezza: l’uguaglianza tra uomo e donna, il valore inviolabile della vita umana nella sua concretezza storica, il rispetto della libertà di coscienza e il diritto alla libertà religiosa, una nuova concezione della corporeità e sessualità, il diritto a un maggio benessere e non soltanto alla salute, la laicità. Anche se, tutto ciò, è macchiato da violenze, emarginazione, continuo impoverimento.

b) la presenza nella vita dell’ottica pluralistica.

Pluralità di offerte, dunque, pluralità di modalità di accesso, ma anche pluralità e progressiva soggettivazione del rapporto con la religione e di pluralizzazione dei modelli a disposizione.

c) il pluralismo religioso.

La pluralizzazione religiosa tende a creare una rete di offerte che rispondano al desiderio di spiritualità presente nel postmoderno, criticando l’illusione di poter fare a meno dell’orizzonte religioso per poter liberare la storia e renderla ottimale alle richieste di una migliore qualità della vita. Al contempo, l’incontro con tradizioni religiose altre, rimette in gioco il significato dell’identità credente, del suo credo e della capacità che ha la fede e l’esperienza religiosa di offrire una pista di ricerca affidabile e autentica. Quale atteggiamento di fronte alle altre religioni? : «La Chiesa incoraggia ormai un atteggiamento di rispetto e di stima per le altre religioni mondiali. Questo cambia il modo di fare missione della Chiesa e di annunciare la parla di Dio a tutti coloro che appartengono alle religioni non cristiane» (C. Geffré, Il futuro della fede cristiana e la sfida del pluralismo, Bologna 2008, 122).

Ma in questo percorso il rischio, è quello di irrigidirsi in richieste di identità di appartenenza, in fondamentalismi ideologici, in certezze religiose senza spazio al dubbio. Il suggerimento, invece, è di abitare i confini culturali, religiosi, interpersonali, a partire da un principio biblico costitutivo e fondamentale: la relazione con l’altro.



2. Superare le resistenze!

In questo percorso decisamente nuovo e pieno di opportunità dobbiamo confrontarci e superare delle resistenze, ne enumero alcune tra le più complesse:

a) Il ripensamento dell’idea di identità.

Senza dubbio, il dato più eloquente è lo svuotamento di una determinata idea di identità, La presunzione di conservare l’identità come raggiungimento di uno status sociale al riparo da perturbazioni etiche e giuridiche, risulta essere anacronistico, sebbene affonda le proprie ragioni nella fragilità psicologica dell’io e della sua crescita. Va sottolineato, però, il fatto che la categoria identità è stata sovraccaricata di significati non adeguati, quasi a giustificare la necessità di stabilire confini e per schivare la responsabilità che esige l’incontro tra le culture da coltivare nella concretezza della vita di volta in volta. Forse, è questo il tempo di relazionarsi con molteplici appartenenze: « Quando si concepisce la propria identità come la risultante di molteplici appartenenze, alcune legate a una storia etnica e altre no, alcune legate a una tradizione religiosa e altre no, quando si vedono dentro di sé, nelle proprie origini, nel proprio percorso, diverse confluenze, diversi contributi, diversi meticciati, diversi influssi sottili e contraddittori, si crea un rapporto differente con gli altri, come con la propria “tribù”». (A. Maalouf, L’identità, Milano 2005)

b) La crisi della tradizione come nostalgia dell’origine.

Il rischio è di innalzare il passato e la memoria a frontiere invalicabili, ricorrendo ad un’origine identitaria che altro non è che il sintomo di una volontà di assolutizzazione della propria visione culturale. La tentazione di reputare le soluzioni prese dalle precedenti generazioni come le uniche in grado di assicurare equilibrio e benessere individuale e sociale, implica immobilizzare il presente e ipotecare l’esperimento della vita. Non sarebbe più adeguato per la costruzione di identità non solo una buona dose di memoria, ma anche un’altrettanta dose di oblio? Come evidenzia Giovanni Paolo II nel messaggio della giornata mondiale della pace 2001, Dialogo tra le culture per una civiltà dell’amore e della pace, 15: «In realtà, una cultura, nella misura in cui è veramente vitale, non ha motivo di temere di essere sopraffatta, mentre nessuna legge potrebbe tenerla in vita quando fosse morta negli animi».

c) La difficoltà a “diventare” cristiani nuovamente.

La scoperta delle religioni e la riscoperta della laicità ci invitano ad accogliere la fede come un dono da condividere, a lavorare con tutti per i valori del Regno, a costruire un mondo più umano.



3. E' questo un tempo favorevole per la missione!

a) Uno stile esodale.

Per testimoniare la novità di Gesù Cristo è opportuno coniugarla con la

grammatica umana fondamentale. Vale a dire: con l’esistenza quotidiana, fatta di gioie, interrogativi, attese, desideri, progetti. E’ evidente, allora, che la missione come evento che pone a disposizione di ogni uomo il messaggio liberante del Regno, informa la spiritualità del missionario. Di più, la spiritualità è un’esperienza di rottura, capacità continua di non adagiarsi alla vita, alla storia, alla cultura così come si presentano. Proprio il vissuto missionario sa che l’incontro con gli altri, l’ospitalità di modi di vivere e pensare diversamente, inaugura una spiritualità sempre aperta

all’essenziale antropologico. La spiritualità missionaria è l’unità della compassione di Gesù con la libertà evangelica. La vita, il quotidiano, la cultura è in uno stato permanente di liberazione, e il missionario partecipando alla liberazione del mondo e degli altri, diventa libero. Si tratta di vivere un atteggiamento di esodo permanente. «a) esodo da se stesso e dalle proprie sicurezze; b) esodo ecclesiale: la missione è lasciare una chiesa ben stabilita con i suoi modelli teologici, per andare ad aiutare una chiesa bisognosa, o farla sorgere dove ancora non esiste, lasciandoci convertire da questa esperienza; c) esodo socio-culturale: la missione è liberarsi dai condizionamenti della propria classe e cultura, che impediscono di percepire la presenza dello Spirito e i cammini del Vangelo nella cultura dove siamo chiamati a servire. La missione non è “lanciare un prodotto” (proselitismo, propaganda, “colonizzazione missionaria”), ma condividere con amore disinteressato e utile un dono gratuito che non ci appartiene» (F. Masserdotti, Spiritualità missionaria. Meditazioni, Bologna 1989).



b) Il dialogo interculturale e interreligioso.

Incontrare una cultura altra è un evento che fa percepire ad ogni persona un pensiero diverso dal suo, talvolta, se non spesso, divergente, del quale non si può non tener conto se si vuole dialogare responsabilmente sulle questioni della vita. Il dialogo

interculturale non lascia inalterati, perché spinge ad una crescita che non può accontentarsi della superficialità. Il dialogo interculturale, di conseguenza, è un movimento di reciprocità che spinge al cambiamento dell’esistente, verso un progetto che abbia come obiettivo una etica comune. Se non si ha il desiderio di mutare ciò che impedisce la costruzione di una società più giusta e più rispettosa, l’incontro interculturale è di fatto irrealizzabile. Entro queste coordinate, il contributo del cristianesimo si profila come servizio culturale all’uomo; vale a dire, sulla costruzione di un’umanità differente che sappia puntare sulla dignità e sul diritto, soprattutto di coloro che per politiche imperialistiche sono esclusi ed emarginati. Il riconoscimento creativo della pluralità culturale appartiene al cristianesimo e alla sua storia. E’ proprio del messaggio cristiano essere «una religione che, in nome della sua missione, cerca libertà e giustizia per tutti» comprendendosi come «una religione che sviluppa in sé una particolare cultura, ossia la cultura del riconoscimento degli altri nel loro essere altri».(J.B.Metz,Differenziazioni nella comprensione del policentrismo,inF.X. Kaufmann-J.B.Metz,Capacità di futuro. Movimenti di ricerca nel cristianesimo, Brescia 1988, 116)



4. La missione a partire dall’interculturalità!

La molteplicità delle culture e il pluralismo religioso impongono di ridefinire la missione. La Chiesa riconosce che esistono diverse culture e religioni come manifestazioni ontologiche degli esseri umani riuniti in società. È più cosciente della necessità di coinvolgersi nel dialogo, nell'urgenza della missione. Sa che non è l'esclusiva espressione di fede nel mistero divino e i semi del Verbo danno anche frutti fuori dall'istituzione ecclesiastica. Ugualmente le culture, coi loro valori e realizzazioni, sono espressioni collettive dell'umanesimo, che nascono al di là dell'attività della Chiesa e la sfidano a riconoscervi il dono di Dio. La missione diventa incontro per una sintesi tra Vangelo e culture e una riespressione della fede all'interno di culture diverse; diventa dialogo tra soggetti, nella promozione della dignità e dei diritti delle culture con la luce e l'annuncio del Vangelo, accompagnandole criticamente per la loro liberazione integrale. Non si rinuncia a proclamare l'offerta di Gesù, ma senza violentare i processi endogeni delle culture dei popoli. La missione è, alla fine, una presenza rispettosa, aperta e recettiva ai valori culturali. In alcune situazioni ci si servirà dell'interculturalità come strumento relazionale, in altre si manterrà il proposito dell'inculturazione. Nel primo caso la missione sarà incontro, evitando di travasare un modello in un'altra cultura, la plantatio Ecclesiae come di solito intesa. La relazione dovrà consistere, da parte cristiana, nell'accogliere altre voci dello Spirito, in una compagnia dei processi endogeni della stessa cultura, autonoma, da cui la Chiesa sarebbe arricchita. Nel secondo si proporrà l'incarnazione della fede in queste culture per far nascere nuove forme di Chiesa, autoctona. Assumere l'interculturalità implica promuovere il dialogo, che chiede uguaglianza, apertura, sincerità, interscambio, empatia. La Chiesa deve prendere coscienza che lo Spirito agisce prima che il missionario proclami la Buona Notizia, accettare che la salvezza, come grazia di Dio, può arrivare non esclusivamente dalla Chiesa e dal cristianesimo, ammettere che tutte le esperienze e relazioni culturali e religiose portano verità alla Grande Verità di Dio e dell'essere umano. Di conseguenza il messaggero cristiano è un testimone, che ascolta e facilita "gli altri", poiché proclama Cristo, ma riconosce l'opera di Dio in altri spazi.



5. Missione in periferia!

Il fenomeno dell'urbanesimo non è certamente nuovo. È il logico risultato della civiltà industriale che ha modificato profondamente le abitudini della gente in quest'ultimo secolo della nostra storia. Per la pastorale missionaria queste nuove concentrazioni urbane sono evidentemente una novità carica di incognite e di problemi sia sul piano sociale che religioso. La gente vi vive sradicata dalla propria cultura e dal proprio gruppo. spesso in quartieri dove prosperano la promiscuità, la malavita, l'ingovernabilità, i gruppi fondamentalisti e ogni altro genere di propaganda. Lavorare oggi in città, ovunque, è diventato più difficile. Se poi si pensa a essere pastori in uno degli agglomerati urbani del sud del mondo dove si concentrano tutti i problemi dello sviluppo e del sottosviluppo dell'intero paese, non è difficile immaginarne la complessità e l’urgenza nello stesso tempo del lavoro da compiere; un lavoro non impossibile, ma certamente molto esigente e cruciale anche e soprattutto nelle terre una volta dette di missione. Lo diceva già Giovanni Paolo II in Redemptoris missio (37b): «Oggi l'immagine della missione ad gentes sta forse cambiando: luoghi privilegiati dovrebbero essere le grandi città, dove sorgono nuovi costumi e modelli di vita, nuove forme di cultura e comunicazione, che poi influiscono sulla popolazione. È vero che la "scelta degli ultimi" deve portare a non trascurare i gruppi umani più marginali e isolati, ma è anche vero che non si possono evangelizzare le persone o i piccoli gruppi, trascurando i centri dove nasce, si può dire un'umanità nuova con nuovi modelli di sviluppo. Il futuro delle giovani nazioni si sta formando nelle città». In Africa, in Asia e in America latina il problema dell'urbanesimo e della concentrazione della popolazione nelle città sta diventando una sfida pastorale inevitabile che richiede di essere urgentemente presa in considerazione con nuovi metodi e soprattutto con persone nuove. Quando si visitano città come São Paulo del Brasile, Città del Messico, Nairobi, non si può sfuggire all'impatto con la loro cruda realtà. Sono città che riproducono l'immagine stessa del mondo della globalizzazione: un centro luminoso, slanciato. tecnologicamente all'avanguardia, pulito e accogliente, simboleggiato dai grattacieli, degno delle metropoli americane. Ma poi, andando dal centro verso la periferia, si nota un progressivo degrado sociale e logistico che costringe ad aprire gli occhi su una realtà di disoccupazione, affollamento. povertà, insalubrità e assenza di governo, che è esattamente e simmetricamente il contrario di quello che si vede al centro. I quartieri periferici, in continua inarrestabile espansione, accolgono una folla anonima, indistinta, abbandonata a se stessa, che fornisce la manodopera alla città, ma che ne assorbe anche tutte le tensioni e le contraddizioni.



Una diversa realtà missionaria

La gente delle periferie è necessaria e funzionale alla crescita industriale ed economica delta città, ma vive nella città in modo sradicato. Essa sente acutamente, più acutamente degli altri, il disagio delta vita urbana e il contrasto con la zona di provenienza. Un contrasto lacerante: là viveva ancora al ritmo delle stagioni e, pur nella povertà, conservava ancora la sua dignità, custodiva e coltivava i valori culturali, umani e cristiani che poteva ancora insegnare e trasmettere alle nuove generazioni. Così è stato per molto tempo ed è ancora in tante parti del mondo legato alla missione ad gentes. Oggi nella nuova situazione urbana tutto è messo in discussione e quindi in crisi, e tutto sembra cambiato: la gioventù è affascinata e sedotta dalle luci della città e dagli specchietti della cultura della globalizzazione che vede imperante al centro delle città. La saggezza degli anziani non riesce a farsi ascoltare. Un vuoto si crea nelle nuove generazioni riempito da valori che vengono da fuori, superficiali ed effimeri: sono i nuovi idoli della città che per i giovani funzionano da droga alienante e da diversivo pericoloso che sbocca quasi sempre nella violenza. La città, pur lontana e poco amata, sta corrodendo la cultura rurale, la gioventù non resta facilmente all'interno, cerca la città dove, se non trova lavoro, trova tuttavia quella libertà che ha sbirciato e sognato guardando la televisione nel bar o nella casa di qualche fortunato compaesano. Le scuole superiori sono in città, le università e gli ospedali pure: come è possibile costruire il futuro nella brousse? È vero che la cultura originaria non viene cancellata dalla coscienza della gente: per certi avvenimenti i cittadini, sia i politici che gli intellettuali, ritorneranno sempre al villaggio! Ma ormai la generazione presente e certamente la prossima è rivolta alla città.



Una nuova mentalità e un nuovo stile di presenza missionaria

Assumere una nuova mentalità adatta ai centri urbani non sarà un lavoro facile. Probabilmente una generazione deve scomparire. quella che ha praticato la missione "tradizionale". Molti missionari che hanno sempre lavorato nel contesto rurale delle diocesi oppure anche nelle città, ma con una pastorale centrata sulle parrocchie, una pastorale cioè di conservazione, faranno molta fatica a riadattarsi a una nuova presenza urbana, ad avere delle comunità elastiche, che nascono e si trasformano nell'arco di una generazione. Bisogna creare una nuova mentalità, che nuova in realtà non sarebbe, perché è quella del Vangelo, del pastore che va alla ricerca delle sue pecore, che non le attende all'ovile, ma che non ha con sé, come nella parabola di Luca, le novantanove, ma una sola pecora, mentre le altre sono disperse, non necessariamente perdute, nelle periferie di una città come São Paulo o nelle città satelliti di Manila o nelle interminabili e sconosciute periferie di Lagos o di Nairobi!

La nuova realtà missionaria è quella della ricerca e dell'accoglienza. è quella dell'invio di laici impegnati e appositamente preparati per accogliere e raccogliere questi nuovi membri della comunità cristiana: è una pastorale che risponde ai tempi reali della gente che lavora in città e che rientra solo per mangiare a riposare. Bisognerà praticare spesso una pastorale traversale e quindi d'insieme per rispondere alle nuove categorie della popolazione secondo i loro interessi e le loro condizioni. Insomma è tempo di fantasia missionaria non di ripetizione di sistemi d'altri tempi e d'altri luoghi. Siamo certamente di fronte a una sfida inedita per la missione e per i suoi missionari. Sappiamo raccoglierla?



3. Missione itinerante!

La vocazione missionaria, nel suo senso specifico, è essenzialmente itinerante. Nella sua mistica e nel suo obiettivo. Non ogni attività pastorale od ogni vocazione apostolica nella Chiesa è, né deve essere, itinerante. Sono importanti le vocazioni apostoliche che prendono piede e si impegnano in una comunità o Chiesa locale in modo permanente, ed è questo certamente l'atteggiamento abituale. Ma accanto a questo, caratteristico del carisma missionario, in quanto vocazione a lasciare la propria Chiesa locale per farle mettere radici in un altro luogo, e di un istituto missionario l'atteggiamento di provvisorietà e di itineranza. Cosa vuol dire questo? È il vangelo stesso e la prassi missionaria di Gesù a darci una chiave per la risposta. Nel vangelo di Luca leggiamo: « Le folle lo cercavano (Gesù), lo raggiunsero e volevano trattenerlo perché non se ne andasse via da loro. Egli però disse: " Bisogna che io annunzi il Regno di Dio anche alle altre città; per questo sono stato mandato " » (Lc 4,42). Gesù non si concentra esclusivamente in un luogo. La sua attività missionaria è itinerante: non si installa. Una volta che ha fatto dei discepoli in una città, passa in un'altra a fare lo stesso. Su più vasta scala il carattere itinerante della missione di Gesù sarà riprodotto in seguito dai primi Apostoli, in particolare da S. Paolo: una volta fondata una Chiesa, se ne partivano per fondarne un'altra. Le Chiese fondate non venivano abbandonate; sorgevano in esse ministeri che le aiutavano a crescere e a diventare missionarie a loro volta. La mistica itinerante è stata propria di tutti i grandi missionari e delle migliori imprese missionarie del cristianesimo. Si pensi, ad esempio, a S. Francesco Saverio, a S. Francesco d'Assisi, a S. Domenico. Si pensi alla prima evangelizzazione dell'America: l'incredibile estensione geografica che essa ha abbracciato in poco tempo non si può capire senza il criterio della missione itinerante e della mistica dell'esodo missionario. Tale criterio e tale mistica, d'altra parte, sono sempre minacciati dalle tendenze alla «installazione missionaria ». Può capitare che la missione, una volta riuscita con gli anni a impiantare in maniera sufficiente una Chiesa, nel senso che essa possiede ormai un proprio dinamismo, pur necessitando ancora di aiuto, vi si stabilisca a tempo indefinito senza proiettarsi oltre. Il missionario, l'istituto missionario ha perso allora la propria dimensione universale, il costante dinamismo verso «gli altri», e si è «localizzata». Si è ridotto a far parte esclusivamente di « noi ». Rinnovare lo spirito della missione è anche ricuperare la sua mistica del carattere di itineranza e provvisorietà. Questo rinnovamento è richiesto in modo permanente nella vita della Chiesa. Gruppi, congregazioni, istituti appositamente creati per la missione, per andare oltre le frontiere a fondare la Chiesa in mezzo alle genti, finiscono spesso per «localizzarsi», chiusi nel luogo di cui si prendono indefinitamente cura con una pastorale ordinaria e una Chiesa stabilita. Nell'assumere un territorio non evangelizzato, «territorio di missione», l'istituto o congregazione missionaria, invece di incentivare i ministeri e le comunità locali, in modo da potersi progressivamente ritirare dal territorio a beneficio sia della Chiesa locale, che va consolidando le proprie radici con le sue stesse risorse, sia della Chiesa che attende di essere fondata da un'altra parte, tende a identificarsi per interi decenni col territorio medesimo. Sembra invece un criterio più coerente con la natura e la mistica della missione, quello che attualmente viene prevalentemente praticato da molti istituti missionari nell'assumere « territori di missione » per periodi di tempo ragionevolmente limitati, con l'impegno di lasciarvi comunità sufficientemente radicate e in crescita.



Conclusione

Carissimi, ecco alcune riflessioni sulla missione, con le quali dobbiamo necessariamente confrontarci ed assumere nella quotidianità del nostro essere ed operare. Concludendo possiamo richiamare alcuni criteri condivisi. La Chiesa, le nostre comunità devono passare da una posizione paternalista a una liberatrice, dall'idea che le altre culture siano bisognose a quella che possano offrire umanizzazione (Santo Domingo 1,4.4 138). Non si pretende la conversione degli altri, ma è necessario un cammino di avvicinamento. Il dialogo non è un mero condividere e comunicare pensieri, ma essere disponibili al cambiamento e scoprire nuovi spazi di realizzazione insieme. Essi ci fanno riconoscere che anche la Chiesa e la comunità sono discepole e alla scuola di altre voci dello Spirito.

Grazie!

Buona riflessione, buon cammino, buona conversione!

Coraggio e avanti in Domino!

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